Il convegno di Rotterdam: le novità della ricerca
L’University Medical Centre di Rotterdam ha ospitato il 5 ottobre 2012 il convegno “International Conference Angelman Syndrome” organizzato dalla “Nina Foundation-Research on Angelman Syndrome”. Vi hanno partecipato i più importanti studiosi nell’ambito della ricerca scientifica per la Sindrome di Angelman (AS).
Il congresso si è focalizzato sui recenti avanzamenti inerenti gli aspetti genetici e molecolari della malattia e sulle possibili strategie terapeutiche. In particolare, studi in vitro e nei modelli animali (murini) hanno identificato due strategie ipotizzabili per il trattamento: da un lato l’identificazione di target farmacologici a livello della sinapsi o dei segnali intracellulari che nella AS sono alterati, dall’altro l’attivazione del gene UBE3A paterno silente.
Per quanto riguarda il primo punto, cioè l’individuazione di possibili bersagli per la terapia, i principali interventi sono stati quello di Ype Elgersma, del dipartimento di Neuroscienze dell’University Medical Centre di Rotterdam e di Eric Klann del Centre for Neural Science dell’Università di New York.
Nell’intervento di Elgersma è stato affrontato il ruolo dell’enzima Chinasi-Ca/Calmodulina dipendente di tipo II (CaMKII) che si è osservato nel modello sperimentale essere necessario per la plasticità cerebrale e per i meccanismi di apprendimento. La sua espressione è sostanzialmente post-natale e non è dunque necessario per la formazione macrostrutturale dell’encefalo mentre entra in gioco nel corretto sviluppo e rimodellamento dei circuiti neuronali.
Nel modello animale AS, caratterizzato a livello genetico dalla presenza di una mutazione del gene UBE3A ereditato in linea materna e a livello fenotipico da sintomi neurologici simili a quelli presenti nei pazienti con AS, si è osservato che vi è una riduzione dell’attività della CaMKII in seguito ad un incremento della sua forma iperfosforilata in un sito particolare che ha effetto inibitorio e determina una riduzione dell’effetto enzimatico. Si è inoltre osservato sempre nel modello murino AS che la presenza di una mutazione di una sequenza del gene che codifica per la CaMKII che ne impedisca la fosforilazione si correla ad un fenotipo caratterizzato da un parziale recupero dei deficit neurologici.
L’UBE3A e CaMKII sono espresse principalmente in un tipo particolare di cellule del cervelletto e dell’ippocampo; l’ipotesi è che esista verosimilmente un legame molecolare tra E6AP, che è la proteina codificata dall’UBE3A, e CaMKII e una possibilità potrebbe essere che E6AP regoli la fosforilazione di CaMKII; non ci sono a tuttora dati che confermino questa correlazione.
Nell’ultima parte dell’intervento di Elgersma sono stati riportati alcuni dati provenienti dallo studio in corso condotto dalla sua equipe sul modello animale per cui emergerebbe come topi AS possano recuperare parzialmente le funzioni motorie in seguito ad una riattivazione del gene UBE3A. Nella relazione tuttavia non è stata fatta menzione della modalità con la quale in questo studio si ottenga la riattivazione di tale gene.
Il secondo intervento inerente la possibile individuazione di target farmacologici è stato quello di Eric Klann il quale ha riportato alcuni dati emersi dal suo lavoro di ricerca in ambito sperimentale.
Il modello animale AS, oltre ad esibire aspetti clinici sovrapponibili a quelli osservati nell’uomo come crisi epilettiche, disfunzioni motorie e cognitive, mostra anche una alterazione della “long term potentation” (LTP) (un fenomeno neurofisiologico caratterizzato da un aumento a lungo termine nella trasmissione del segnale tra due neuroni che implica una serie di modificazioni molecolari sulla funzione e sulla microstruttura di una o più giunzioni sinaptiche e che coopera ai meccanismi di plasticità cerebrale) e deficit di memoria ippocampo-dipendente. Tale dato permette dunque di ipotizzare una disfunzione ippocampale nella AS. Precedenti studi sul modello animale non-AS hanno mostrato una correlazione tra il fenomeno della LTP e una via intracellulare definita dall’interazione recettoriale tra una proteina detta Neuregulina tipo I ed un recettore detto ErbB4 per cui il legame tra neuregulina con il recettore induce depotenziamento e soppressione della LTP.
L’autore e la sua equipe hanno trovato che nell’ippocampo dei topi AS i livelli di entrambe queste macromolecole sono alterati ed in particolare vi è un aumento del segnala neuregulina-ErbB4 e una maggiore degradazione del recettore. Entrambe queste molecole non sembrano tuttavia interagire direttamente con la proteina codificata dall’UBE3A. Sono stati quindi riportati i risultati rispetto all’utilizzo, in questo modello sperimentale, di molecole in grado di inibire il recettore ErbB4 come la molecola PD158780: l’infusione intra-ippocampale in vivo aumenta la memoria long term contextual-fear e permette un recupero della LTP. Un secondo aspetto discusso da Klann fa riferimento ad un recente studio in cui sono state analizzate le proprietà intrinseche di membrana del segmento assonale iniziale dei neuroni piramidali CA1 ippocampali sempre nel modello murino AS. È stato osservato come questi neuroni esibiscono alterazioni delle proprietà intrinseche di membrana sia passive che attive; in particolare vi è una espressione maggiore di due proteine di membrana dette NaV1.6 (un canale del sodio voltaggio-dipendente) e aplha1-NaKA (una proteina di membrana che permette il passaggio di ioni dall’esterno della cellula all’interno e viceversa). Si è inoltre osservato che nei neuroni ippocampali vi è un incremento dell’espressione di proteine dette Ankirina-B e -G che sono proteine del citoscheletro che regolano l’assemblaggio molecolare a livello della membrana. Non vi è tuttora evidenza che tali proteine di membrana interagiscano in modo diretto con E6AP, per cui non è tuttora chiara la relazione tra l’assenza dell’UBE3A materno e tali alterazioni.
Per quanto riguarda la seconda strategia ipotizzabile di trattamento, ossia l’attivazione del gene UBE3A paterno silente, Ben Philpot, del Dipartimento di Fisiologia Cellulare e Molecolare dell’Università del North Carolina (USA) ha presentato i dati pubblicati recentemente dal suo gruppo sulla rivista Nature riguardanti l’effetto di determinati farmaci sul gene UBE3A di origine paterna. Dato il riscontro che lo stato di imprinting si mantiene in vitro, il primo passo sperimentale è stato quello di isolare in coltura neuroni di topi AS e di valutare quali molecole fossero in grado di riattivare il gene paterno. L’attenzione è stata posta su farmaci detti inibitori delle topoisomerasi di tipo I e di tipo II, ed in particolare su una molecola detta topotecan, note perché utilizzate in ambito oncologico in quanto chemioterapici antitumorali. Nello studio si è osservato come il topotecan, in questo modello sperimentale, è in grado di attivare il gene paterno riducendo la trascrizione di un RNA regolatorio antisenso senza modificare in modo sostanziale la metilazione a livello del centro dell’imprinting. Successivamente lo studio è stato condotto in vivo attraverso la somministrazione del topotecan mediante l’inoculazione diretta del farmaco all’interno di un ventricolo laterale cerebrale nel modello murino AS. È stato osservato come a livello dell’emisfero cerebrale di inoculazione si riscontrava una up-regolazione del gene UBE3A paterno nei neuroni dell’ippocampo e della corteccia, mentre controlateralmente non si osservavano modificazioni dell’espressione genica e come tali modificazioni si mantenevano anche dopo che il topotecan non fosse più rintracciabile nel tessuto cerebrale. La conclusione dell’intervento è stata dunque che la ricerca ha individuato delle molecole che, nel modello animale e in situazioni sperimentali, sono in grado di riattivare l’allele paterno del gene UBE3A. Questa si profila come una strategia molto promettente, ma è necessaria cautela nell’interpretazione dei dati in quanto sussistono ancora punti da chiarire e non vi sono ancora dimostrazioni degli effetti clinici conseguenti al trattamento.
La giornata di lavoro si è conclusa con l’intervento di Charles Williams, dell’Università della Florida, noto esperto della AS. Sono stati affrontati gli aspetti clinici della AS, sia in età evolutiva che nell’età adulta, confermando i dati presenti nella letteratura scientifica. Nella seconda parte dell’intervento è stato fatto un breve riferimento ai trials clinici, conclusi o in corso, su pazienti con AS. In particolare è stato confermato che i due trials completati, uno condotto da Carlos A. Bacino (American Journal of Genetics 2010) e l’altro da Lynne M. Bird (American Journal of Medical Genetics 2011), sull’utilizzo di sostanze pro-metilanti nella dieta non hanno dato risultati soddisfacenti. Inoltre è stato fatto cenno a due trials clinici ancora in corso, il primo condotto da Edwin Weeber sull’utilizzo della minociclina ed il secondo condotto dal Wen-Hann Tan sull’utilizzo della L-Dopa, di cui però non sono ancora a disposizione risultati, ancorché preliminari.
In conclusione, il Congresso di Rotterdam ha sancito come la ricerca scientifica per la Sindrome di Angelman stia vivendo un momento di insperata vitalità, dovuta alla progressiva delucidazione delle basi biomolecolari che sottendono la patologia. Queste conoscenze, grazie all’impiego di tecniche di farmacogenomica sempre più avanzate, quali quelle applicate nel lavoro del gruppo di Ben Philpot, e alla disponibilità di modelli animali sempre più accurati, quali quelli impiegati dal gruppo di Ype Elgersma, alimentano per la prima volta la speranza di una terapia su base genetica e non sintomatica.